La vita sociale in paese, sia prima sia dopo la guerra, si svolgeva (specie durante l’estate) nella strada. E qui che ci s’informava e si sapeva di tutto; è qui che si conoscevano le ragazze sedute davanti agli usci di casa assieme ai famigliari.
Una volta adocchiata la prescelta, si mandava l’ambasciata, tramite persona fidata a lei vicina. Spesso si palesavano le amorose intenzioni anche per lettera. Se la risposta era positiva, s’informavano le rispettive famiglie. Seguivano, poi, gli approcci quotidiani a base di conversazioni. Ci si limitava anche a qualche stretta di mano, davanti all’uscio di casa, a brevi frasi scambiate a distanza con la “bella alla finestra”. Tale tipo di fidanzamento durava diversi anni. Il passeggio era consentito soltanto se la giovane veniva accompagnata da un famigliare. Fatto il “parentado” e stabilita la “dote” , si passava dapprima alla promessa di fidanzamento ufficiale e poi al matrimonio.
In questo ed in altri importanti eventi della famiglia veniva coinvolto immancabilmente lo “stradario”, cioè tutti gli abitanti delle due strade dove avevano domicilio i futuri sposi. La partecipazione allargata era rituale sacro perché al tempo tutti quelli del vicinato si volevano bene e si rispettavano.
A quei tempi mancavano del tutto i luoghi di pubblico intrattenimento o ritrovo. C’erano le cantine frequentate esclusivamente dai maschi. Restano nei ricordi quelle di Domenico Monetti, detto “Mimì”; di Graziella Iannacci, detta la “Cantinére”; dei Parracino, alias “Lu monache”; di Vincenzo Danza, detto “Cazzaridde”.
La chiesa era un punto di riferimento per tutti, sia come polo religioso sia come centro di aggregazione sociale. L’attaccamento atavico al campanile era di tutte le famiglie. Ci si andava a tutte le ore della giornata a seguire le funzioni religiose, le iniziative dell’Azione Cattolica e nei momenti di estremo bisogno. Coordinava il tutto uno staff di sacerdoti di prim’ordine, capeggiata dall’arciprete mons. Giovanni Draisci, in cattedra sin dall’inizio del secolo scorso. I collaboratori erano: don Giovanni Draisci, omonimo del cugino arciprete; don Nicolino Martelli e don Matteo Lambriola rispettivamente incaricati della gestione delle cappelle del Purgatorio, di San Rocco e del Carmine. I primi due si sostenevano con fondi provenienti dalle offerte o dalle ripetizioni scolastiche. L’ultimo era del tutto autosufficiente in quanto docente di ruolo alle scuole elementari.
Sono loro, con l’insegnamento dei principi e valori cristiani, ad illuminare il cammino della vita e ad infondere in ognuno la speranza per un futuro migliore. E’ per questo che la comunità mai ha disperato ed è andata avanti superando ogni contrarietà, comprese quelle della povertà e della fame.
N.B. Passo tratto dal v. ebook “Don Leonardo Cella/ dal paese al mondo salesiano”di Antonio Del Vecchio, Roma, Maritato Groop, 2012
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.