A differenza di oggi, dove tutto passa inosservato per via della velocità e perfezione della mietitrebbia, a quei tempi la trebbiatura con macchina suscitava l’attenzione della gente.
Al principiar dell’estate, il classico battito del trattore a testa calda si avvertiva da lontano. Procedeva lentamente trainando una lunga carovana composta di trebbia, scala, scaletta e carretto dei lubrificanti. Giunti al luogo ove il marchingegno era atteso, lo si sistemava nell’aia già predisposta per la trebbiatura ed occupata in gran parte da grandi cumuli di covoni (a forma squadrata) sistemati a spiovente.
Piazzate le macchine, un gran numero di operai (da 15 a 30) era pronto ad svolgere il proprio lavoro richiamato dal suono penetrante della sirena. L’intenso segnale acustico, udibile a grande distanza, richiamava anche una certa quantità di curiosi.
S’incominciava a trebbiare alle ore piccole. Per parecchio tempo si udiva in lontananza il battito frenetico del trattore e il rombo cupo della trebbiatrice. Anche il polverone che la macchina sollevava s’intravedeva a grande distanza.
Esternamente la trebbiatrice si presentava come una grande cassa di legno, montata su un carro a quattro ruote della lunghezza di circa sei o sette metri, che si faceva notare per il suo brillante colore arancione. Ai suoi lati sporgevano degli assi sui quali erano montate le pulegge. Il tutto era collegato ed attivato dal congegno a vapore. Da una passerella la macchina ingoiava ad uno ad uno i covoni; mentre da una uscita posteriore veniva fuori la paglia, lestamente raccolta e trascinata con la “marinara” (tavola trainata da un asino o mulo) da un vispo ragazzo. Dalle restanti bocche fuoruscivano la pula e il prezioso seme di grano, che veniva accolto da capienti recipienti e subito trasportato ai cumuli dei rispettivi
proprietari o ai fittavoli. Il grano, quindi, era messo nei sacchi di iuta e pesato alla vicina bascula, opportunamente livellata e tarata con il marco o romano. In mancanza di questo strumento si ricorreva, come nei tempi antichi, a particolari recipienti di capacità in legno, detti in dialetto “mezzette” (Mezzette = 48 chilogrammi) e “stuppiddi” (cinque chilogrammi).
Si procedeva alla divisione del raccolto tra proprietari del terreno e mezzadri e al saldo delle spettanze prestabilite, di solito pagate in natura e com-mensurate per antica tradizione alla quantità di seme impiegato (due o più quintali a ettaro, secondo l’annata).
Era il fattore o altro incaricato a registrare intaccando con il classico coltello a serramanico un bastoncino di legno o di ferula. Ogni segno stava per un quintale. Tale usanza era praticata in quasi tutte le masserie, anche per la conta di altri generi di merce, compreso il vino (un’intacca per litro).
Infine, il grano era depositato dai padroni in asciutti e grandi silos, per poi essere venduto in tempi maggiormente favorevoli; mentre quello dei mezzadri e fittavoli erano trasportato in paese per essere in parte venduto al fine di far fronte alle spese sostenute, in parte ridotto in farina e riservato alla famiglia (quasi sempre numerosa) per il quotidiano fabbisogno.
A settembre si completava l’opera liberando il grano dalle impurità frammiste, in particolare dai neri semi di veccia allora molto diffusa. Tale operazione si faceva a mano, con i bucherellati “farnàre”, quando l’entità del grano da selezionare era modesta; con gli “svecciatoi” quando il raccolto proveniva da grandi estensioni di terreno. Questi ultimi erano macchine costituite essenzialmente da cilindri metallici forati che, messi in rotazione con una manovella, riuscivano a ben selezionare i semi.
Un abbondante pranzo, di cui spesso era involontaria protagonista la pecora (in altri casi il pollame), era servito sotto un’ampia tettoia o all’aperto alla fine della giornata di trebbiatura (vedi foto). Partecipavano al banchetto tutti quelli che avevano collaborato ai lavori. Attenzione particolare era riservata al macchinista e ai suoi aiutanti.
S’iniziava con una minestra di pasta all’uovo in brodo o pastasciutta al sugo di carne. Seguiva lo spezzatino in umido con le patate e le verdure dell’orto. Il tutto viene abbondantemente annaffiato con vino locale. Seguivano i dolci fatti in casa, spesso taralli e, raramente, “pastarelle”. Si chiudeva la giornata col canto di motivi popolari accom-pagnato dalla chitarra, dalla fisarmonica o da altro strumento musicale a seconda di quanto passava il convento.
Il resto della popolazione rignanese, formata in massima parte da braccianti agricoli e da pastori, a quei tempi viveva in estrema indigenza. La situazione si fece nera durante la guerra. Il lavoro degli uomini, quasi tutti partiti, lo facevano le donne. I viveri erano razionati. Ai negozi di generi alimentari si andava con la tessera. Matteo, temendo di essere chiamato alle armi, vendette a malincuore la trebbiatrice. Si arrangiava in paese con altri lavori.
*Racconto tratto dal v. Don Leonardo Cella / dal paese al mondo salesiano di Antonio Del Vecchio, Roma, Maritato Group, 2012 (e-book)
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.