Stando in casa, molti di quelli di una certa età come me ricordano i tempi belli della loro gioventù, ossia quelli dei mitici anni ’60 e ’70, quando in assenza delle discoteche che si moltiplicheranno nei decenni successivi, ci si accontentava di organizzare a turno qualche festa da ballo in casa,
che di solito ricadeva per qualche grande occasione, come compleanni, onomastici o fatte a posto, su concessione dei famigliari. Ovviamente ciò accadeva in quelle case dove si aveva e funzionava un giradischi. Altre volte ci si riuniva in qualche locale isolato, ossia senza famigliari o adulti rompiscatole, che noi chiamavamo club, portandovi un giradischi a valigia, detto anche fonovaligia. In giro ce n’erano pochi. Ne aveva uno la sezione della Democrazia Cristiana, ubicata nella centralissima piazza. Questo serviva per mettervi musica in attesa di comizi e nelle altre occasioni comandate, a cominciare dalla nota canzone “Biancofiore…” Una volta, ce lo portò in sede, il figlio del ‘mammasantissimo’ politico di turno. Ci ballammo tutta la serata. I dischi aggiornati a 45 giri erano quelli della nostra collezione, ossia acquistati di tanto in tanto e conservati in archivio da uno di noi. Al termine della serata, l’interessato mi disse :”Tieniti il giradischi e conservalo per le prossime volte. Ti raccomando, acqua in bocca”. Così non fu. Un certo giorno, dovendo servire l’apparecchio – Seppi dopo, per metterci su musica celebrativa per la funzione davanti alla lapide dei Caduti del 4 novembre -, si presentò a casa il custode della sezione democristiana, un certo Matteo, un tipo piuttosto burbero e per certi versi anche arrogante. Ad accoglierlo c’era la nonna anziana. L’uomo disse subito: “Dammi il giradischi!”. La donna, confusa, gli rispose “Non abbiamo nessuno giravite, mio nipote non ha a che farsene. Se ne vuoi uno, vattelo a cercare all’immondezzaio”. L’interlocutore, risentito, si allontanò subito, biascicando tra sé e sé parole sconnesse ed incomprensibili. Non appena, ne venni a sapere, per evitare guai, consegnai seduta stante l’apparecchio in sede. Intanto, la nuova arrivò anche ad un amico comune, Nino, venuto su in paese per la ‘quindicina’(giornata bisettimanale di riposo). Quest’ultimo, ora anziano agricoltore, assai stimato e ben voluto in paese, a quel tempo lavorava sodo giù in campagna, assieme ai suoi genitori e al resto della famiglia, che gestivano un’azienda tutta loro. Egli mi disse: “ci penso io ad acquistarne uno”. Passarono pochi giorni e un pomeriggio, mi ci si presentò davanti, dicendomi: andiamo a Jana, a comprare il giradischi. Alle 16.00 ci avviamo a piedi per la SP. Strada facendo, mi confidò che di soldi ne aveva a sufficienza, avendo messo mano al suo salvadanaio, riempito lira dopo lira, in virtù di qualche regalia paterna o di vendita di prodotti campagnoli in città, come uova e polli, in particolare, e forse anche di qualche capra o capretto (vedi foto). Il tutto ovviamente avveniva all’insaputa del genitore, un tipo piuttosto severo e ligio alla sua funzione di capo-famiglia. Si trattava di dieci mila lire, più che bastevoli per la bisogna. Pensate che a quel tempo una giornata di lavoro era retribuita con mille lire. Andammo da “Paparule”, un negozio assai fornito e aggiornato su questo genere di cose. Tra i tanti in mostra, scegliemmo l’apparecchio più semplice da manovrare. Di esso non ricordo bene la marca, pare fosse un ‘Marelli’ o ‘Lesa’, a quel tempo ritenuti tra i marchi nazionali più rinomati. In omaggio, il padrone ci fornì pure una decina di “45”giri ‘in vinile’ contenenti non solo canzoni e balli movimentati, ma anche lenti detti slow , nonché tanghi e valzer classici, come la Cumparsita. E questo per non scontentare quelli più grandi e meno aggiornati di noi. Tra i dischi a noi cari c’erano, tra l’altro: il Cielo in una stanza di Mina, Nel blu dipinto di blu di Domenico Modugno, Il Nostro concerto di Umberto Bindi, ecc. Ritornati in paese, il mio amico portò con sé il fonovaligia, per farlo vedere ai famigliari. Di esso ce ne servimmo raramente, anche perché lo stesso veniva utilizzato costantemente dalle sorelle e fratelli più grandi di lui, altrettanto impegnati sul fronte del divertimento. Per il “campagnolo” , io studente, ero una sorta di maestro. Una volta egli adocchiò una ragazza ben fatta, pure studentessa, che lo stordì a primo colpo. Se ne innamorò perdutamente, ma non aveva ‘faccia’ ossia coraggio di fermarla e farle domanda. Così si diceva allora. Provvidi io stesso a stendere l’apposita letterina, contente parole amore e la contestuale richiesta di assenso, firmandola con il suo nome, che era anche il mio. Forse da qui nascerà il frainteso. La ragazza non mi era estranea, perché quando la incontravo da sola o in gruppo mi guardava puntualmente con simpatia. Così una domenica all’uscita della Messa, presi il bigliettino e la seguii fino al vecchio Municipio. Le fece cenno e lei, distaccatasi dal gruppo, mi raggiunse al di là del portone. Qui le consegnai la missiva. Lei la lesse e mi disse di sì. Ma non a all’amico, ma a me. Me ne accorsi subito del suo frainteso e acconsentii con piacere. Da allora iniziò una storia d’amore che continuò per oltre un anno, sino a quando lei non partì per il Nord con la famiglia. L’amico, intanto, sollecitato da me, rimpiazzò la sua prima cotta, con un’altra adolescente un po’ cresciuta della nostra compagnia. Successivamente, fattosi le ossa, ebbe altre esperienze sino a quando anche lui non trovò la donna del suo destino.
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.