Passarono mesi. Dopo di ché i due colonizzatori, così si definirono fin dal loro arrivo nel Capoluogo lombardo, ‘scasarono’ al piano terra del medesimo numero civico di Via Tale dei Tali di Vattelappesca.
Un bi-locale con cucina e bagno. Intanto, erano arrivati altri immigrati dal paese, quasi tutti loro parenti, ad eccezione di Francescuzzo, cantante a tempo perso e perfetto imitatore del Bobby nazionale con la sua “ Una lacrima sul viso…” Per cui l’alloggio a malapena li conteneva, specie di notte. Su un letto a doppia piazza dormivano almeno sei persone. Il resto era distribuito su due brandine, recuperate dal padrone di casa. A quel tempo si faceva la spesa a turno, come a turno si cucinava. Una volta toccò a Tito, il primo compagno di avventura di Ottavio. Entrò con lui nel mini-market, dove si vendevano diversi generi alimentari. Si avvicinarono al banco della macelleria. Alla vendita c’era una bellissima e prosperosa ragazza. In virtù dei suoi innumerevoli attributi, i giovani se la facevamo letteralmente con gli occhi. Aspettarono il loro filo. Quando arrivò, la donna rivolta a Tito che era davanti a lui, disse: “A lei che prendo” e l’ amico: “un chilo di ‘ascelle” di pollo. “Come, cosa dice?- incalzava l’altra, che non aveva affatto capito, mentre Ottavio all’orecchio di Tito sussurrava “alette, alette”. La faccenda andò per le lunghe fino a quando la ragazza seppe direttamente da Ottavio che cosa volessero effettivamente i due. Insomma, un chilo di ali di pollo e non il pollo intero, perché questo tipo di carne costava poco e poteva sfamare l’intera comitiva, costituita da quasi dieci commensali. Il modo di dire e la sincerità linguistica di Tito piacque tanto, che in poco tempo fece il giro tra i loro compaesani, che sorridono ancor oggi a distanza di oltre mezzo secolo. Ad un certo punto, Ottavio e Tito lasciarono il loro lavoro di aiutanti piastrellisti, che pure li dava da mangiare, e si diedero a fare i commessi del porta a porta. Provarono prima con i detersivi. Dopo ore ed ore di sfacchinate in questo o quella frazione o Comune, a malapena recuperavamo il primo. Per il resto e la cena, continuarono ad alleggerire il loro gruzzolo di riserva quello che portarono da casa. Poi fu la volta delle enciclopedie degli Editori “Fabbri”. Vi arrivarono, dopo apposito corso ed esercitazione pratica da parte dei capi-squadra. Sembrava un lavoro da niente, considerato che gli istruttori al termine del discorso riuscivano a piazzare il prodotto in poco tempo. Salirono e scesero palazzine e grattacieli. Raramente tramite ascensori, in massima parte guasti. Al termine della giornata, neppure l’ombra di una vendita azzeccata. Per cui lasciarono pure questo lavoro. Un giorno, Tito venne convocato da un negozio di abbigliamento in centro. Data la sua ‘bella o buona presenza’, attributi indispensabili per l’assunzione, e soprattutto per la sua giovane età, fu subito preso. Lavoro leggero, orario confacente e soprattutto belle colleghe, lo convinsero a restare a sempre. In seguito riuscirà pure a frequentare anche una scuola serale per acquisire la qualifica di perforatore meccanico, antesignano del moderno computer. Dal canto suo, Ottavio continuò a cercare un impiego adatto per lui. Frequentò un corso presso le “Assicurazioni Venezia” in centro. Durò quasi un mese, con filmati e lezioni a bizzeffe su come diventare assicuratore ‘Vita”. Promosso, non eserciterà mai il mestiere, perché anche in questo caso non c’era un fisso, ma il pagamento a provvigione. Lasciò anche perché nel frattempo fu chiamato ad un lavoro di montaggio a catena, come si diceva allora in gergo sindacale. Si trattava di comporre con i vari pezzi dei lampadari. Ottavio accettò subito, anche perché la ‘fabbrica’ si trovava a pochi chilometri dalla mia residenza. Li ritirarono i libretti di lavoro e cominciarono seduta stante. Ottavio si trovò bene. Pagavano sera per sera al termine della giornata. Guadagnava bene ed era contento. Così lo sarà per diversi mesi. Intanto, il loro inserimento sociale aveva fatto passi da gigante. Conobbe Mario, un professore di francese giovanissimo, e poi Nunzio il ‘barese’, lucidatore e restauratore di mobili antichi. Infine, Salvatore, operaio presso la famosa Tipografia ed Editrice “Cino del Duca”, e compositore di canzoni. Il primo era di formazione di destra. Conosceva tutti nel suo ambiente. Lo aiuterà, poi, a scoprire e a partecipare ad un concorso pubblico, di cui si dirà. Il ‘francese’ (non voleva che fosse chiamato ‘professore’) possedeva un vero e proprio appartamento, ubicato in una palazzina appena costruita, bene ammobiliata. Conviveva con una bergamasca, che aveva reperito tra le ‘sbandate’ alla Stazione Centrale. Si era innamorato e voleva sposarla. Di tanto in tanto andavano a trascorrere qualche vacanza alla casa dei suoceri. Sulla stessa scia si era mosso anche Nunzio, ma non quagliò mai. Si trattava di una ragazza belga, conosciuta anch’essa alla Stazione. Per un certo periodo tra l’uno e l’altra filò un’intensa corrispondenza in lingua. A scriverle era Ottavio. Per cui dal suo assistito riceveva tanti soldi. Lui guadagnava cifre da capogiro per il restauro e poi lavorava con persone ricche. Successivamente l’amore finì, quando ormai stava per raggiungerla in Belgio. Si era comprato i vestiti nuovi di marca e persino le valigie di pelle. Ma poi non andrà mai per un ‘no’ di lei pervenutogli tramite un telegramma su cui sfogò tutte le sue lacrime. In considerazione della sua tranquillità economica, anche Ottavio si diede da fare per trovare una donna che gli destasse qualche sogno. In città si trovava la Mandragola. Aveva da poco superato la maggiore età ed era nel pieno della sua sessualità. Poteva andare bene, anche perché qui ella aveva il posto fisso nel pubblico. Dopo averla contattata telefonicamente a pensione, Ottavio cominciò la sua relazione di corteggiamento. Una sera l’andò a trovare persino in casa. Fu molto gentile. Gli offrì la cena. Concordarono, infine, l’appuntamento per il sabato successivo. Egli si diede subito da fare. Mario gli offrì in uso il suo accogliente appartamento, provvisto persino di telefono. Arrivò finalmente il fatidico giorno. Dopo aver fatto la spesa per il pranzo, il corteggiatore si piazzò in casa per cucinare, in attesa del suo arrivo. Da un momento all’altro aspettò che il telefono squillasse. Idem per il duplice campanello del citofono o di ingresso. Passò la prima ora in silenzio. Passò anche la seconda. La carne del ragù era già fatta e disfatta. Della ospite nessun cenno. Passò l’una, le due e persino le tre pomeridiane. Ma di lei nessun segno. Intanto, l’uomo fremeva. Finalmente alle sedici il campanello fece trin trin e tutto premuroso l’improvvisato padrone di casa si diresse alla porta. L’aprì di scatto. Ma di fronte gli si parò non la sua sola sagoma, ma due. Si irrigidii subito. Capì immediatamente e voleva fare, come si dice, buon viso e cattivo gioco. Perciò disse freddamente: “Accomodatevi!” . Lei era allegra e canzonatoria, come suo costume. Li feci accomodare in salotto, restando chiuso nel suo dispettoso silenzio. A questo punto lei disse con tono spigliato: “Otta’, perché non ci metti un bel disco?” e l’interloquito di colpo: “Che ci metto? La marcia funebre!” E giù di questo tono con botta e risposta puntuale che sembrava un gioco a barzellette. A quel punto, venne in soccorso di Ottavio una venuta speciale. Il campanello trillò di nuovo. Era l’amico Salvatore che capì subito la situazione, Dopo aver salutato educatamente gli ospiti ‘indesiderati’, disse: Sono venuto a pregarti di venire con me a Studio Due (l’emittente della Rai di Milano), ho due biglietti per assistere a ‘Sette voci” con Pippo Baudo! “ . In cuor suo, l’invitato, rivolgendo uno sguardo di viva gratitudine verso l’amico per avergli tolto dall’increscioso imbarazzo, disse subito sì. “E allora, fai presto, andiamo!”, concluse il soccorritore con un sorriso sornione sulle labbra La Mandragola e il suo compagno, un tipo scuro in volto che sembrava un marocchino, capita l’antifone, abbandonarono subito il campo. Poi scesero insieme i due amici e si misero in macchina. Giunti in sede, il suo compagno lo spinse verso il Bar allestito in un angolo del salone d’ingresso e ordinò due caffè. Quindi, Ottavio si avvicinò al banco, tutto annuvolato nella mente e nell’umore, diventato nero a più non posso, e cominciò inavvertitamente a condire il suo caffè, prima con uno, e poi, con due, tre, quattro cucchiaini di zucchero. Ed avrebbe continuato chissà per quanto, se non lo avesse interrotto l’amico, vivamente sorpreso del suo gesto irrazionale: “Oh, che fai? Quanto zucchero stai mettendo?”. Subito l’altro rinvenne e gli scappò tra il riso e il pianto: “Salvato’, questa sera mi sento per davvero amaro!”. Così che saltarono anche lo spettacolo in diretta che si stava avviando al piano superiore e Ottavio non ebbe più modo di conoscere direttamente quello che sarebbe stato poi il conduttore più famoso della TV nazionale.
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.