Sul palazzo incombeva la leggenda del cavallo bianco, quello che alcuni giuravano di averlo visto di notte, quando la luna si trovava al plenilunio. Appariva all’improvviso e poi spariva pochi minuti dopo aver galoppato a trotto per qualche metro. Era il cavallo di Troiano, l’antico barone, trovato morto alla Lama,
mentre stava scendendo dallo scosceso tratturo che portava alla masseria sottostante, una delle tante del suo impero di latifondista di oltre mille versure. Tutti avevano paura, perché, secondo i ‘leggendari ( nome in gergo dato ai narratori di leggende), a chi lo vedeva capitava puntualmente una disgrazia: la rottura di una gamba; la morte di una persona cara; la perdita all’otto, la mancata conquista o perdita dell’amata, e cosi via. Insomma, se ne dicevano di cotte e di crude su questo immancabile maleficio. Il cavallo veniva su, ma nessuno sapeva spiegare come. L’ipotesi più accreditata era che venisse dal ventre della terra, cioè dalle fondamenta dell’antico castello, a sua volta collegato ad una galleria segreta che sboccava nel sottostante vallone. Risaliva per subodorare la sua antica stalla e mangiare un po’ del gustoso fieno che il padrone non gli faceva mai mancare nelle mangiatoie della stalla ubicata a piano terra. Io ero un assiduo frequentatore del palazzo per via delle amicizie che coltivavo con i suoi occupanti dal primo all’ultimo nell’ordine di età. Tra le quali c’era la vecchia signora, la nobildonna, che, per amore di religione aveva distrutto tutta la sua proprietà ed ora viveva povera all’interno del suo palazzo, dopo le tante scarrozzate nelle sue masserie, compiute a bordo dello sciarrabà (calesse) o negli ultimi tempi con la sua lussuosa carrozza, finita di recente al museo. E questo per via di un piede malato, ora andato in cancrena . Un pomeriggio sì ed uno no, salivo su per adempiere al mio ruolo di maestro di dopo-scuola. L’alunna si chiamava Marianna. Aveva 13 anni, ma sembrava assai più grande di quelle della sua età. Lo era per via della gonna lunga che indossava, del seno che le veniva su prosperoso, e forse di più per le gambe lunghe ed affusolate. Completavano la sua nascente bellezza i capelli castano – chiari, bene acconciati attorno al suo viso roseo e al sorriso sfottente che le dava un’aria di monella viziata, come spesso accade agli ultimi nati di entrambi i sessi. Frequentava la seconda media, ma di analisi logica e sintassi ne sapeva ben poco, come pure di latino. A malapena conosceva le declinazioni. A questa carenza si aggiungeva anche la matematica con l’eterno teorema di Pitagora, che non riusciva mai “a quagliare” nella teoria e nell’applicazione. Ma questo era un difetto di tutta la scolaresca dell’epoca. Ritardo che, come si sa, proverà a risolverlo qualche anno dopo lo stesso Celentano con la sua celebre canzone sul tema. Il rimedio canoro in parola lo usai pure io durante una lezione di dopo-scuola, tenuta a casa mia e diretta ad un altro alunno, cantante in erba. Nonostante la sua performance fosse stata eseguita a regola d’arte, non imparò mai l’anzidetta regola, confermando così che la distanza che c’è tra teoria (in questo caso razionalità) e pratica (creatività) non sempre è colmabile. Quindi, avvalendomi del mio sapere di studente delle Superiori, mi occupavo a preparare gli alunni per gli esami di riparazione a settembre. Ad aprirmi era sempre lei, forse perché mi sbirciava quando arrivavo dalla porta semichiusa del balcone. Era il mese di luglio e bisognava evitare che il sole entrasse. Ci accomodavamo nella sala interna e qui stavo per ore ed ore a ripetere le mie lezioni. Lei era insaziabile, voleva sapere sempre di più non solo sulle materie ma anche sulla vita in generale. Talvolta erano domande scabrose, ma io non mi scoraggiavo mai. Ad ogni suo perché davo una risposta franca ed appagante. Una volta mi accadde un episodio strano. Quel giorno, finita la lezione, Marianna mi disse: “Non te ne andare subito, aspettami nel salone grande. Il tempo di fare un servizio e poi torno per farti vedere una cosa”. Così mi spostai nel luogo indicato e mi accomodai sulla poltrona. Dopo pochi minuti avvertii dei passi e dall’odore o meglio dal fetore nauseabondo, mi accorsi subito che stava entrando la nobildonna, zoppicando e biascicando il rosario. A questo punto, non sapendo che fare per non incontrarla e soprattutto per evitare i suoi lunghi discorsi di anziana pensai bene di rifugiarmi dietro la tenda di una delle grandi finestre che si affacciavano sul cortile. E qui aspettai che l’intrusa si allontanasse. Al contrario lei decisa venne verso di me, forse intenzionata ad affacciarsi alla finestra. A questo punto, fui costretto dapprima a stringermi sul lato estremo del tendaggio e poi a uscire di corsa, abbandonando ogni cosa. La donna non si accorse che ero una figura umana e subito a squarciagola gridò: “Vada retro vada retro, demonio! Prenditi il tuo cavallo bianco e vai all’inferno! Quindi si acquietò e tornò alle sue preghiere, convinta di averla fatta franca anche questa volta. Al termine dell’esperienza didattica con Marianna, rompemmo il rapporto convenzionale di docente-alunna e stringemmo amicizia, un’amicizia stretta che durerà per tutta la vita, come quella per la famiglia nel suo insieme e tra i singoli. Avevano in casa un’antica serva di nome Carolina che amavano più della madre, perché era sempre lei a cavarli dal buco di ogni problema, oltre che sul piano assistenziale anche su quello affettivo. Un bene, quest’ultimo, che durerà per tutti, sino alla sua morte, pervenuta in età longeva. Quando si doveva affrontare qualche incombenza delicata o complicata ci si rivolgeva sempre a lei. In ogni evenienza era sempre pronta ad esaudire ogni desiderio o soluzione. Una volta ricorsi pure io per un appuntamento con la mia fidanzata di turno. Ero uno della casa. Lei mi disse subito di sì e concordammo l’orario per la sera successiva. A quell’ora nel palazzo c’era solo Carolina e la padrona. Gli altri non ricordo dove fossero, forse a Foggia. Arrivò prima lei. La vidi da sotto l’arco, dove ero acquattato in attesa dell’ora propizia. Lei prima si addentrò nel portone e poi salì in fretta e furia la rampa di scala che portava alla porta di ingresso del maxi-appartamento. Un complesso quest’ultimo di antica fattura e ben arredato con mobili antichi. Carolina la fece subito accomodare nella saletta interna. La raggiunsi pochi minuti dopo, affannato e preso dall’amore del fare. Ci appartammo in un angolo, dove c’era un ampio e comodo salotto. E qui, talvolta seduti, talvolta sdraiati, cominciammo a scambiarci moine, baci e carezze a volontà. Per un quarto d’ora circa filammo liscio. Nei dintorni spirava un’atmosfera romantica, silente e piena di mistero. Ma non durò a lungo. Infatti, ad un tratto udimmo un parlottare concitato. Corsi subito alla porta della cucina per sentire chi e che cosa fosse. Nello spostarmi i miei passi concitati furono avvertiti. Mi rigirai indietro, mentre udivo l’inopportuno e sconosciuto visitatore che diceva a Carolina: “Ho udito dei passi, qui c’è qualcuno? Qui c’è qualcuno?” E lei: “no, Mario, che stai dicendo, non c’è nessuno! “. E lui: va be’ fai venire a parlare anche noi!. Si riferiva ad un eventuale appuntamento tra lui e la fidanzata. E la donna, rispondeva: No, non posso, la mia padrona, sai che è religiosissima, e non ama vedere o sentire queste cose. Poi tacquero. Convinto, che lo scocciatore se ne fosse andato, provai di nuovo ad origliare per assicurarmi che lo fosse per davvero, permettendoci così di uscire liberamente dalla casa. Mentre mi accingevo a tornare verso il salotto, dove lei stava affrontando tremante il da farsi. Sentii di nuovo nette le parole di Mario che insisteva: qui c’è qualcuno, perché non me lo vuoi dire?. No. No, non c’è nessuno – ribadiva l’interlocutrice. E così per altre volte ancora. A un certo punto ritornò il silenzio. Ma non ci azzardammo a uscire dalla seconda porta, quella che immetteva direttamente nell’atrio. Decidemmo di aspettare un altro po’, per evitare ulteriori brutte sorprese. Poi udimmo la voce di Carolina che, affacciatasi sulla soglia della porta incriminata della cucina ci disse: “uscite, se n’è andato!”. E così, abbandonammo di corsa il Palazzo e tornammo al nostro lavoro usato: lei a casa ed io in piazza. Proprio qui mi accodai alla comitiva di Mario nel mentre, tutto bianco in volto, egli raccontava per filo e per segno agli altri amici quanto gli era accaduto prima: “ho visto il cavallo bianco, ho visto il cavallo bianco – affermava con piglio e sicurezza, come era suo carattere! Ho avvertito per davvero il suo trotto…Il suono dei suoi passi, come pure il nitrito lontano; suoni che mi rintronano ancora nelle orecchie…!. Io zitto, ascoltai con il sorriso sotteso il suo racconto. Ma ad un certo punto sbottai: ma che dici, Mario, che dici! Il cavallo ero io e il trotto erano i miei passi. Lui in un primo tempo si schernì, respingendo con sdegno il mio dire, ma dopo, avendo ascoltando taluni particolari chiarificatori sull’episodio, si convinse. Fu a quel punto che mi disse scherzosamente: << Non ho mai avuto paura di streghe e magia, ma questa sera sì. Non dimenticherò più questo accadimento. Mi fa rabbia – concluse con stizza – perché a farmi fesso sia stato proprio tu, Tony, quello che tutti credevamo innocente ed inesperto. Ero contento di questo riconoscimento. Da allora del cavallo bianco non si parlò più, ma della paura di Mario sì. Una diceria tragico-comica che perdura ancora oggi, nonostante lui se ne sia tornato al padre da un bel pezzo di anni.
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.