C’era un tempo, quando col filo del telefono si poteva e si faceva di tutto. Infatti, oltre a comunicare verbalmente, colla medesima via si potevano inviare o ricevere anche i pacchi. Ovviamente aiutati dalla fantasia. Ecco un’esperienza simpatica che capitò di vivere con un affiatato gruppo di adolescenti paesani, impegnati in quel della vicina San Marco in Lamis, a seguire, in piena estate, le lezioni di riparazione agli esami di settembre.
Tutto questo accadde presso l’abitazione di un occhialuto insegnante prossimo alla laurea. Un certo giorno di fine anni ‘50, il gruppo si trovav a bigollenare, in attesa dell’ora di scuola, in mezzo al piano (Piazza Europa). La compagnia era composta, oltre che da me, beato tra le donne, da Lina, Sara e Maria, detta anche Mary all’inglese, per via di vezzeggiativo e di modernità. Ad un tratto Lina si allontanò di scatto con l’intento di raggiungere la vicina corriera delle 11.00 diretta a Rignano, ma non ce la fece e tornò indietro con un pacchettino in mano, indispettita per aver mancato il colpo. L’involucro conteneva un panno di lino, che doveva essere prontamente ricamato dalla sorella Maria, rinomata maestra dell’epoca, e consegnato con altrettanta urgenza all’arcivescovo di Manfredonia nel primo pomeriggio, qui impegnato per la visita pastorale. Lina si dolse e pianse, come un animale ferito, interrogandosi a ripetizione: “ora come faccio, ora come faccio! Quando sarò a casa, mi ammazzeranno di botte!”. E così continuò per un bel po’ a rovinare l’iniziale allegria e spensieratezza del gruppo. Ad un certo punto, avvilito e un po’ scocciato , mi lasciai scappare con scherno : “Su basta, mandalo per telefono”. Lei si fermò di botto: “Come col telefono ?. “Si – intervenne Sara – perché non te ne liberi col telefono?”. In ciò, incoraggiata da un’occhiata di assenso-complicità, rivoltale da me. Ripreso in mano il discorso, insistetti con sottesa ironia: “Sei proprio nu mentone (ragazza arretrata) e non segui affatto l’evoluzione della tecnica. Il servizio di invio pacchi funziona da qualche anno, basta inserire il pacco sul vagoncino e in pochi minuti correndo sui binari a ritmo sostenuto, lo stesso arriva al centralino di San Marco” . Dopo alcune titubanze, finalmente Lina si convinse della bontà della trovata e spronò gli altri a seguirla: “Allora, sbrighiamoci, andiamo da Giulia, e facciamo il fatto!”. In un baleno raggiunsero la villetta e la palazzina dirimpettaia, che ospitava il Centralino La porta d’ingresso era protetta da una rete di tubicini metallici, che non impedì loro di seguire la scena. Gli uni si fermarono al di qua, mentre la Lina, già al suo interno, raggiunse il tavolo di servizio e, rivolta alla gestrice, disse. “Giuliè, devo mandare questo a Rignano!”. L’altra visibilmente sbigottita rispose: “Come lo devi mandare?”. A questo punto, gli amici di fuori scoppiarono a ridere a crepapelle. Del chiasso se ne accorse anche la telefonista e fu coinvolta anche lei dal riso. A Lina, a questo punto, non restò che allontanarsi, con la coda tra le gambe e tutta rossa in viso, dal luogo del misfatto. Da quel giorno ella si farà desiderare dalla comitiva. Infatti, per oltre un mese non si fece più vedere in giro , ferita mortalmente com’era per essere stata svergognata ed umiliata in un modo così puerile dai suoi compagni di viaggio. Compagni che egli amava più di ogni altra persona, come spesso accade quando si cresce insieme e a vista in un piccolo paese, come quello in parola. Di questi tempi, io filavo con Mary, mentre la Lina con un autista della Sita di dieci e più anni maggiore di lei, che aveva un viso e un fisico assai maschio che piaceva alle donne. Una volta, marinata la scuola, ci accompagnammo a piedi in un suo fondo con casetta, posto lungo la via per il convento. Io ero con la mia bicicletta senza freni. A bloccare il mezzo, ci pensava all’occorrenza, il piede destro. Una volta arrivati ci separammo. Lui e lei i sistemarono nei pressi del canalone sottostante (il torrente Jana), io e Mary sotto la pergola della la casetta a un piano. La mia compagna era molto magra ed asciutta, la sua adolescenza era ancora troppo acerba. Il viso era scarno e il naso prominente (Saranno proprio questi attributi, a farci lasciare pochi mesi dopo). Per cui mi arrovellai il cervello e nel contempo a muovere mani e braccia su come baciarla. Lei dapprima cercò di divincolarsi, ma poi, quando avvertimmo i gemiti di piacere che la coppia di sotto emetteva di tanto in tanto, si attaccò a me come una sanguisuga. Credo fu la sua prima esperienza d’amore. Al termine, salimmo sulla strada maestra e, sistemata lei sul davanti della bicicletta, abbordai con coraggio la ripida discesa. Ad un certo punto, quando ormai ero prossimo alla curva grande, cercai di frenare, ma non riuscii, e finimmo dritto nel sottostante campo arato dei Palatella, lei sotto, io sopra e la bicicletta più giù. Non ci era successo nulla e tornammo al capolinea col fiato grosso e un po’ di paura, ma dentro appagati e soddisfatti per l’acquisita esperienza. Nelle ore libere, io e lei, ci intrattenevamo nella Villetta. Su una panchina davanti a noi era solito sistemarsi un uomo maturo sulla sessantina. Si diceva che esercitasse l’arte del fattucchiere – indovino (in tale veste veniva spesso in paese, per abbindolare i creduloni). Fu allora che coniammo un anagramma che univa i nostri nomi e cognomi, che giurammo di tenere sempre in mente. Si trattava de “La capanna del vecchio Meritony”. Tanto, sulla scia del romanzo di Harriet Beecher Stowe “La capanna dello zio Tom”, diventato poi film, proiettato pure al cinema “La Piccirella” del posto, di cui spesso si parlava in quei giorni. Mary aveva genitori possessivi. Per cui fuori casa non la vedevi quasi mai. Solo di sera, quando erano a passeggio o in casa di amici. Lei amava salire sul terrazzo al terzo piano e di là come la “Giulietta” faceva scendere una cordicella, a cui legavamo i nostri rispettivi bigliettini d’amore. Una volta, ritornando in paese, alle 15,30 (lei frequentava le Magistrali a San Giovanni Rotondo), accadde che alcuni giovinastri la prendessero in giro per via di una frase da lei pronunciata a caso e diretta all’amica Sara”Perché oggi non sei venuta in villa, ti avevamo conservato una mezza fica o fico” (di solito mangiavamo panini e frutta). Poi passarono a fare apprezzamenti sulla sua persona, rilevando questo o quel difetto. Forse lo facevano per ripicca contro il padre, per motivi politici o di contravvenzione. Comunque sia, quelle parole me la fecero cadere dal cuore e i miei sogni con lei si spezzarono di colpo. In seguito, lei mise carni e diventò bellissima, ma non tornammo più insieme. Sara, intanto, dopo un corteggiamento spietato si era fidanzata con Felice di San Marco, come lei studente al Magistrale. Il loro amore, che si concretizzerà tanti anni dopo col matrimonio, fu alimentato da continui litigi, talvolta anche su fatti banali. Erano spesso litigi d’amore che, anziché minarlo, rafforzavano il reciproco sentimento. Lui era un tipo sportivo e vestiva i pantaloni Jeans persino di notte. A lei, bellissima col sorriso sornione stampato sempre sul volto e labbra carnose da strappa – baci, piaceva, invece, l’uomo in distinto ed elegante abito classico, con l’immancabile cravatta. E poi, di recente le era morto per una disgrazia accaduta in alta Italia il fratello Alberto, bello ed elegante, di cui voleva trovare assolutamente un sostituto. Lo desiderava, per lenire il suo acuto dolore e semmai per cancellare del tutto il ricordo col tempo Una volta la ragazza, che abitava nei quartieri alti del paese, gli mandò a dire, tramite di me: “Se sta in jeans, non esco!”. Egli si trovava sulla ripa. Era venuto da San Marco in bicicletta. Non appena seppe dell’ambasciata, andò su tutte le furie. “Dille che domani sera – rispose infuriato – metterò i pantaloni con le toppe sul sedere”. E così fece e lei non uscì, anche quella volta. E non lo farà sino a quando lui, imparata la lezione, non indosserà calzoni di velluto alla moda di colore verde marcio che scendeva a pennello sulle sue scarpe a punta della Varese, intonandosi con il pullover a giro collo di colore giallo, che valorizzava le sue maschie forme pettorali. Dopo il matrimonio, lui dirigente pubblico e la partner coordinatrice sanitaria, andarono ad abitare nel Capoluogo della Provincia. Della coppia restai l’amico di famiglia, per antonomasia, ritrovandoci puntualmente nelle grandi e piccole occasioni, meno spesso da quando lui non c’è più. Felice negli anni a seguire visse momenti per davvero fortunati, in ogni campo. A 18 anni vinse il concorso ed occupò un posto pubblico di prestigio. Qualche anno dopo si auto – regalò, ossia acquistò con i soldi propri, una 600 di colore grigio, con le porte anteriori anti-vento, croce-delizia per tanti improvvisati guardoni, perché quando scendevano le ragazze con le larghe gonne di terital, erano costrette a far vedere il meglio di sé. Successivamente, sistematasi pure la Sara nel nominato Capoluogo, convennero di sposarsi. Prima di farlo, un certo giorno pensarono di far visita al padre, già pensionato, un tipo dai lineamenti molto belli che viveva nella sua città di Napoli. Venne in piazza con la citata utilitaria, fornita per l’occasione di un vistoso e lucente porta-bagagli metallico., per avere più spazio all’interno, che aveva i sedili posteriori già occupati dalla sorella di lei e da me in perlustrazione nella città partenopea, dove di lì a poco avrei dovuto iscrivermi all’Università. Scese giù dal Palazzo dove abitava Sara un vicino di casa, esperto di funi e di carico scarico da animali da soma . Per cui ci pensò lui a sistemare e a legare bagagli e valigie sull’auto. Partimmo. Dopo un quarto d’ora raggiungemmo la pianura e di lì a poco il ponte sul Candelaro. A questo punto, Felice si chiese: “Stanno tutte le valigie?”. Io risposi “Eh, chi li muove, visto e considerato come sono state sistemate!”. Non convinto, con la mano sinistra toccò il bagaglio ‘incriminato’ che pareva ben saldo. Tranquillizzatosi, proseguì a cento a l’ora, prima verso il Capoluogo di provincia e poi verso quello di destinazione. Di tanto in tanto si faceva capolino nella sua mente dubbio amletico: “ci saranno o non ci saranno le valigie in groppa ?“. E questo sino a Napoli. Quando arrivammo e scendemmo dalla macchina, solo allora fummo convinti che una valigia non c’era più. Era quella dei due futuri sposi, contenente, tra l’altro gli inviti per il matrimonio. Chissà dove era andata a finire!. Li lasciai in pena e andai a risolvere i miei problemi personali. Solo al ritorno e non prima conobbero il destino della valigia. Si era volatizzata proprio durante la corsa a cento all’ora nel rettilineo dopo il ponte. La ritrovò un sammarchese, che provvide subito a consegnarla ai destinatari, una volta rientrati in sede. Il matrimonio si fece, gli invitati furono tanti e tutti vissero felici e contenti negli anni a venire! Da allora il promesso sposo capì che in certi casi non bisogna mai fidarsi degli altri, specie quando si dicono e si ritengono degli esperti. Antonio Del Vecchio
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.