di Teresa Maria Rauzino
“Giornale di scavo” di Arturo Palma di Cesnola è stato appena pubblicato da Eta Beta, a cura di Angelo e Antonio Del Vecchio, per il Circolo Culturale “Giulio Ricci” di Rignano Garganico.
È un testo in cui l’Autore racconta, sotto forma di romanzo, quello che in un resoconto scientifico non avrebbe mai potuto raccontare: la vita quotidiana, le gioie, gli amori, le passioni e i dolori della sua équipe impegnata nello scavo di Grotta Terlizzi (Paglicci). Ci descrive le fasi del lavoro nel cantierino della scelta, la selezione dei reperti ritrovati nel sito archeologico più noto del Paleolitico italiano, le scoperte delle pitture parietali, il ritrovamento del fossile del ragazzo di CRO Magnon, che diventa scoop televisivo per l’Ente che finanzia l’ultimazione dello scavo (effettuato dall’Università di Siena) e la messa in sicurezza di questa preziosità. Palma di Cesnola sintetizza, nell’arco temporale di tre mesi, un lavoro quarantennale, che ha visto impegnati vari operatori. Ma non si limita soltanto a questo. Scava nella vita interiore di ognuno dei suoi personaggi, delineandone profili psicologici degni del miglior Pirandello. Personaggi in cerca d’autore, quindi, che cercano in tutti i modi di evadere, ma non riescono assolutamente a sfuggire al ruolo principale a cui sono destinati dalla vita. A cominciare da se stesso, Vittorio Apici alias Palma di Cesnola, che resta un archeologo anche nella finzione letteraria. Illuminante la citazione pirandelliana in premessa, tratta dai “Quaderni di Serafino Gubbio operatore”: “Possiamo benissimo non ritrovarci in quello che facciamo; ma quello che facciamo, caro mio, è, resta fatto: fatto che ti circoscrive, ti dà comunque una forma e ti imprigiona in essa. Vuoi ribellarti? Non puoi!”. Una cosa insolita può fare, però, Arturo Palma di Cesnola. Può mettere a nudo i drammi interiori che anche un archeologo di fama internazionale come lui ha vissuto, scavando per anni a Grotta Paglicci. Lo fa con un’autoironia sottile, profondamente umana. “Ma scavare in fondo cos’è? – si chiede il prof. Apici- de Cesnola – Non è poi così diverso dalla vita. Bisogna abituare se stessi a uno scavo interiore. Troverai almeno un brandello di te stesso”. Ci descrive i rapporti con i componenti della missione di scavo, che indica con pseudonimi. Il primo è Edoardo de Gilbert, il suo braccio destro, suo alter ego, precisino e pignolo come era lui da giovane, ma che spesso assurge a “maestro” troppo saccente del suo professore. Apici-de Cesnola delinea la figura rasserenante di Luisa, la sua assistente preferita, che apprende in silenzio i segreti della sua tecnica di scavo, anticipa i suoi pensieri, innescando reconditi sogni d’amore, e attese ricambiate nonostante la differenza d’età ( 24 anni + 1, ma lui sente di avere solo quell’anno in più). Luisa, discreta e riservata, vuole solo che lui gli spieghi il significato delle impronte delle mani dipinte nella saletta delle pitture parietali insieme alla sagoma del cavallo rampante. “Quali mani? Lo sai bene che per questo genere di quesiti ci sono mille risposte e nessuna… La mano – le spiega Apici- de Cesnola – non è una parte qualsiasi del nostro corpo. La mano è l’arto più vitale, perfetto che l’uomo possieda, un organo che sente, che fa, che pensa. Sì, anche che pensa. È talmente legata all’intelligenza, alla volontà, che si può dire ne faccia parte”. Poi le fa una carezza, così, sul viso: “Attraverso la mano passa il piacere, l’amore, il dolore, la speranza, passa l’universo: se ti offrissi (non era una dichiarazione d’altri tempi questa?) in dono la mano, sarebbe come darti me stesso, la parte più irrinunciabile e gelosa di me”. Luisa sorride. Forse il prof. è riuscito a farle comprendere qualcosa. Non l’autentico significato, profondamente nascosto, di una mano che 20.000 anni fa fu dipinta in rosso sul bianco della parete di una saletta quasi altrettanto profondamente incassata nel mistero. Ma almeno lo spirito di quell’atto che forse nemmeno i paleolitici potevano interamente comprendere, e che forse ignoravano. Ma lo facevano ugualmente, sotto l’impulso di una loro interna e irresistibile tensione”. Maria Teresa Cantimori, impiegata di banca nubile, che organizza il gruppo di volontari, è definita da Apici- de Cesnola come “la gigantessa” (alta 1,87 si muove con difficoltà durante gli scavi negli spazi angusti della Grotta), ma anche come “la pitonessa” (la sua tecnica avvolgente di comunicazione sembra anticipare “lo sfogatoio del Grande Fratello”, diventando lo “scrigno” che dovrebbe custodire i segreti di tutti, uno scrigno aperto solo a tratti al noncurante prof.). Con la Cantimori intreccia un amore fugace (che dura il tempo di uno scavo, come tutti gli amori fuggevoli descritti nel romanzo), il giovane volontario Carlo Orlandini, che spera di diventare assistente universitario nonostante la concorrenza dei ricercatori accademici. C’è il Berlenghi detto lo Stambecco che si avventura in scalate pericolose per risolvere i problemi tecnici della missione di scavo. Anche lui volontario per poche settimane … C’è Rodolfo Bertini, marxista fino al midollo, appassionato di archeologia, ma nel contempo affascinato dal mistero di un frate (padre Pio), che gli è apparso in sogno e di cui, dopo il lavoro quotidiano in grotta, ricerca le tracce dei luoghi e del profumo di violette nella vicina Acquaviva (San Giovanni Rotondo). Ma non disdegna un’altra Grotta santuario, quella dell’Arcangelo sulla cima del Monte, che ama visitare spesso. E dove ha osservato mani simili a quelle di Terlizzi incise sulle pareti: mani corte e tozze, forti, da contadino o pastore, mani affusolate, lievi e melodiose di giovani donne. Tutte portano una data. Incisa nella roccia, all’interno del contorno delle mani”. Quando il prof. Apici si scoccia per le domande assillanti poste dai numerosi visitatori che irrompono nella grotta come i Re magi, non portando doni ma solo creando problemi come le signore con i tacchi a spillo che inciampando mettono in pericolo la staticità delle precarie sezioni di scavo, il Bertini gli ricorda la funzione didattica e divulgatrice che anche i prof. universitari, come operatori culturali, sono tenuti a svolgere: “La Cultura è, deve essere patrimonio di tutti. Spetta a voi di saper sbriciolare un pane troppo duro per i denti dei più!”. Don Arnaldi, frequentatore assiduo della Grotta è anche lui portatore di tanti perché sulla religiosità dei Paleolitici, se è vicina oppure no alla nostra, dubbi che il prof Apici non scioglie, dicendo che non si possono attribuire i nostri criteri a uomini del Paleolitico vissuti a Terlizzi quasi 25 mila anni fa. Poi ci sono la laureanda Ciampolini, il tecnico Borgioli, che assillano, anche loro, il prof Apici con i loro tanti “perché”: “Domande, domande. Il fatto è che le domande più terribili sono quelle che io rivolgo me stesso- si lamenta il prof- Tra le domande più imbarazzanti c’è appunto questa. Perché scavo? Perché sono digiuno, sono sempre digiuno di conoscenza. Soffro di astinenza. Se non ho la possibilità rispondere a me stesso, come potrei mai soddisfare la libidine loro?”. È uno scavo, soprattutto interiore, troppo difficile, per il prof. Apici: “Segretamente confidiamo che prima o poi scenda un uccello dagli occhi folgoranti in nostro salvamento. E aspettiamo che l’Arcangelo, la spada in pugno, approdi nella nostra Grotta a scacciarvi le ombre. Come fece secoli fa in un’altra grotta qui vicino”. Tra i vari personaggi del romanzo c’è Jacoboni, scavatore clandestino pentito, che conosce il territorio come le sue tasche e guida l’ équipe alla scoperta della grotta delle “false statue” (presumiamo sia l’ attigua Grotta dei Pilastri con stalattiti e stalagmiti imponenti); ci sono gli archeologi- baroni Bertoluzzi e Stronconi che con nonchalance fanno una ricognizione a sorpresa a Terlizzi per carpire in anteprima le scoperte di Apici; c’ è Gastaldi, un altro archeologo che ha il grave difetto di anticipare a tavolino le scoperte dei siti oggetto delle sue missioni prima ancora di effettuare gli scavi, prendendo delle madornali cantonate, con una moglie-arpia che manda in soprintendenza per bloccarne le ispezioni. Anche lui custodisce un segreto innominabile… noto a tutti. Infine c’è il Dott. Cav. Grande Ufficiale, Pasquale Andrea Cuccarollo, proprietario del terreno, che si presenta ogni anno a dare il benvenuto all’ équipe, promettendo migliorie per raggiungere il sito ed aiuti logistici. Viene presentato come quei sovrani che dispensavano monete d’oro alla plebe adorante. Un rapporto problematico, di odio-amore perché – è questo il pensiero di Apici- De Cesnola- “una grotta di interesse archeologico non può appartenere a un privato, è di tutti, dello Stato, cioè di nessuno”. Ma è da lui, Cuccarollo, che, un un certo senso, dipendono le sorti della missione archeologica, in quanto dà il gentile permesso di entrata al sito, cofinanzia gli scavi, fornendo la casupola distante qualche chilometro dalla grotta dove ci sono la cucina, tre posti letto e i servizi igienici in cui de Gilbert monta una futuribile, improbabile, doccia. Nel vicino uliveto vengono issate le tende che ospitano i volontari. Conviene mantenere buoni rapporti, se si vuole proseguire gli scavi a Terlizzi. Come è opportuno tenersi in contatto con il sindaco di Capriano ( Rignano) e gli altri enti finanziatori, dando loro opportuna visibilità con mostre iconografiche ed eventi mediatici. Apici-de Cesnola vive il rapporto del suo lavoro con problematicità, ricorda il vecchio prof. Lenzi, da cui ha imparato i segreti dello scavo archeologico. Gli ha insinuato un dubbio che gli ritorna spesso in mente: “Apici, ma lei se lo chiede mai perché ci dobbiamo prendere tanto a cuore questi ossi? Che ci importa, in fondo a noi, dell’uomo di Cro-Magnon, dell’uomo di Neanderthal, andare a frugare, a dissotterrare i fatti loro, che dopo tutto sono i fatti di ogni uomo, bello o brutto, dalla fronte più bassa o più alta, più robusto o gracile che sia. Che cosa ci spinge a farlo, Apici, me lo dice lei?”. E accenna al gioco degli scacchi dei bambini che, seri in viso, si trastullano coi pezzi, le torri, i pedoni, il cavallo, la regina, senza conoscerne le mosse. Se qualcuno insegnerà loro le regole del gioco, non le ascolteranno, perché avranno creato un gioco a loro misura. Come gli archeologi, pronti solo ad additare i “puntolini”degli altri, ma sostanzialmente autoreferenziali. Ma il lavoro di archeologo, nonostante la difficoltà nel reperimento dei fondi per continuare, anno dopo anno, gli scavi, è un lavoro che Apici ama profondamente, che lo coinvolge e lo appassiona. Gli fa rivivere, quando scopre reperti importanti, visioni oniriche ad alta densità emotiva, Come in tranche, rivive i momenti che hanno segnato la vita della piccola comunità vissuta in quella Grotta. Toccante l’ attesa della madre del ragazzo uscito a cacciare con gli adulti e che tarda a tornare a casa, nella Grotta. La madre resta sveglia per notti intere, alimentando il focolare. Lo veglia notte e giorno, quando torna, durante la breve malattia. La madre gli parla, e la sua voce è come una canzone triste persa tra i monti: ” In un sol giorno… in un sol giorno, figlio, la stagione delle lacrime è caduta su noi… Ma non tremare al pensiero della notte. Pregherò l’uccello della luce di non richiudere le sue ali sul mare, perché le tenebre non vengano a fasciarti, ragazzo. Non agitarti, ragazzo, tu non sei morto, sei solo ammalato, sei debole molto, tu dormi, tu sogni, tra poco ti risveglierai…” Il risveglio non avviene. La madre continua a parlare al suo amato figlio: “Tra 7 giorni e 7 notti gli uomini verranno a compiere il rito che ti libera, ti cingeranno il capo di ghirlande, forse di conchiglie di mare, forse di filari di dente del grande Cervo dei Boschi. Al vento impalpabile del tuo nuovo mondo si muoveranno come una tenue sonagliera, che infonderà coraggio a te, e alle maligne potenze sgomento. Ti porteranno sul corpo le tue armi, quelle che tu stesso ti fabbricasti per essere uomo, e sono parte indissolubile di te; cospargeranno le tue membra di polvere di sole, sarai bello, così, figlio ti acconceranno come per una festa, l’ultima e più grande festa: perché degnamente tu possa presentarti là dove a me non è dato di entrare, nella Terra degli Spiriti, perché benignamente questi ti accolgano nella loro sterminata famiglia. E tu, allora, figlio, così bello e adorno e luminoso, come un albero tutto fiorito, alzati e vai fiducioso verso di loro. E non rattristarti se qui intanto qualcuno, che potrà apparirti crudele, nel partire ti lascerà una grave pietra sui piedi: lo farà affinché tu, che in vita avesti così lunghe e agili gambe, non sia tentato dalla nostalgia di traversare lo spessore intero della notte, di correre fino a noi, che in quel tempo saremo lontano. Laggiù oltre i monti. Io pure con le altre donne seguendo gli uomini, come la norma vuole. Non piangere, figlio, a questo pensiero; tutte le donne, quelle che potrebbero essere madri per te e le sorelle, e quelle che potrebbero esserti sorelle, tutte prima di abbandonarti verranno con me a portarti un fascio di fiori, e ad uno ad uno li spargeranno sul tuo corpo bambino, finché non ne sia interamente ricoperto. Il profumo di tanti fiori ti avvolgerà in una benigna nube che sarà tua, che porterai di là per sempre con te, nel mondo da cui noi siamo esclusi”. La scena richiama alla mente, mi scusi il prof. Apici alias Palma di Cesnola, che forse troverebbe anacronistico questo mio accostamento, i riti funebri dell’area garganica dove è presente la figura della Madre che, sul letto di morte, piange il proprio figlio, descrivendolo come una persona ideale. E continua a parlare con lui, di quello che ha fatto, magnifica la bellezza del suo corpo perfetto, ne tesse le lodi, nel disperato tentativo di negare la realtà della perdita irreparabile, di accettare la realtà della morte. Trovare i modi per “dire” il dolore attraverso parole, gesti e suoni, è il primo passo verso la sua trasformazione, il suo superamento e la reintegrazione nella realtà delle persone colpite dal lutto. Ed è l’esperienza del dolore che rende l’Addolorata, protagonista dei Planctus Mariae nelle processioni del Venerdì santo, una figura cosi umana, così vicina a tutte le donne del Mediterraneo cristiano che si trovano alle prese con la sofferenza nella loro vita quotidiana. La madre di Paglicci, nel sogno onirico di Apici- de Cesnola, nutre come Maria la speranza che suo figlio risorgerà, che continuerà, in qualche modo, a vivere: “Tu non sarai più figlio di questo grembo ma figlio del vento, dell’acqua, della luce. Sarai forse il guizzo argenteo del pesce nel torrente, o il popolo delle foglie assorte nel silenzio, o lo sguardo lungo della Luna sul nostro esule cammino. Chi potrà dirlo? Non dovrò più cercarti, né chiamarti più, figlio del vento, dell’acqua e della luce. Forse verrai tu a cercarmi, a chiamarmi; ed ogni giorno sarà il primo volo d’uccello da Levante, l’ultima favilla fuggita dalla brace di Ponente…” .
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