Rocco Fiore, classe 1934, non c’è più. Ci ha lasciato, ieri sera, al termine di una lunga sofferenza, in parte causata dall’incidente d’auto di alcuni anni or sono dovuta all’imperizia di uno straniero di passaggio dal suo fondo di Mezzanagrande.
Fu un “giorno terribile e indimenticabile” ci raccontava lui, che di auto e motori se ne intendeva ad uffa, avendo con essi lavorato e viaggiato da una vita. Nel podere dell’Ente Riforma, egli, dopo aver fatto il “motorista”, ossia il trattorista, ad arare terreni qui e là nella sconfinata piana, si era stabilito definitivamente. Qui ci viveva da decenni , assieme alla moglie Antonietta (1944), sposata nel 1963, con la quale aveva allevato e fatto studiare i suoi due figli, ora tecnici professionisti affermati e docenti.
Uomo intraprendente ed intelligente Rocco fin da piccolo se la faceva con quelli, come si diceva ai suoi tempi, “meglio di lui”, per lo più studenti e poi validi professionisti, come l’avvocato e poi giudice Matteo Vigilante, il medico-oculista Pasquale Fischietti, l’idraulico tutto fare Vincenzo Cella, Padre Eugenio Resta, Francescano, e tanti altri ancora. Di loro fu per lungo tempo un inseparabile compagno. Quando ancora non c’erano motori e le auto erano scarse, imparò sin dalla prima adolescenza a guidare carretti e sciarabà.
Nei primi anni del dopoguerra, quando il padre per motivi di lavoro si era trasferito a Foggia, egli gli corse dietro e per qualche anno si guadagnò il pane, come amava dire lui, guidando un carretto “veloce” a portare o a ritirare roba qui e là nella città ancora piena di macerie causati dai bombardamenti del 1943 e con le strade a traffico misto disciplinati manualmente dai vigili in alta uniforme posti nei punti strategici. A raccontarci siffatta e “movimentata” esperienza era lui stesso- Lo faceva durante i nostri sempre più rari incontri presso la bottega del suo amico-parente Vincenzo.
Per qualche tempo in gioventù chi scrive gli fu amico-compagno, nonostante fosse minore d’età e seguì le sue vicende amorose con l’allora fidanzata e poi moglie, ultima figlia del prolifico e grande Antonio. Non a torto detto “Antonione”.
Rocco, si interessò pure di politica e fu componente attivo della sezione socialista, quella che sloggiò la DC da suo quindicennale governo del paese e rivoluzionò la politica in paese. Nel pomeriggio si celebreranno i solenni funerale e la salma sarà trasferita al locale cimitero, per essere tumulata. La direzione e redazione della presente testata esprime alla famiglia ristretta ed allargata la sua più prossima vicinanza. Addio Rocco, uomo verace e intelligente, non ti dimenticheremo mai!
Di seguito, pubblichiamo un capitolo del romanzo di chi scrive “Ritratto del giovane Ottavio”, ispirato alla sua persona e tempo.
Andar per olive
Nonostante avessero quasi la stessa età, Ottavio e Guido diventarono amici e compagni solo quando l’uno e l’altro frequentavano il Ginnasio. Così si chiamava allora il primo biennio del Liceo Classico, a Jana. Prima non fu possibile, perché lui per via di una classe avanti, aveva compagni diversi alle Elementari. Per di più abitava al quartiere Piazza ed aveva i coetanei della strada con cui giocare. Altrettanto faceva Ottavio col vicinato della sua età alle “Mura” Allora il borgo antico era intensamente abitato, sia come numero di nuclei familiari, sia per la quantità dei suoi componenti, che mediamente si aggiravano sui cinque figli a famiglia. Per cui fanciulli e ragazzi di ambo i sessi se ne contavano a iosa in ogni singola strada ed era esclusa ogni possibilità di annoiarsi. I loro giochi preferiti erano: la campana, “lu mazzaridde” (una mazza con la quale si colpiva un pezzo di legno più corto, lanciandolo il più lontano possibile), accoppa accoppa (a cavalcioni), l’oca, gioco a carte, taccarello (fazzoletto a doppio nodo, con il quale si colpiva l’avversario), la carrozza con i cuscinetti, duelli con spade di legno, nascondiglio, ecc. Spesso a bande ci affrontavamo con i rivali di altri quartieri. Fu durante un approccio simile, che conobbe per la prima volta Guido che gli fu da subito simpatico. Ottavio riprese l’amicizia con l’altro, quando ritornato dal collegio e conseguito la licenza media da privatista, si rividero a Jana: il primo, a frequentare la IV ginnasiale, l’altro, la V. Di solito era Ottavio ad andare a casa sua. Guido abitava in una affollata traversa della piazza, al secondo piano. Qui c’era una micro – libreria, dove c’erano alcuni testi, per lo più riguardanti le cosiddette scienze occulte e magia (provenienti dall’antico proprietario), altri racconti in genere. Tappati dentro, provarono a leggere per primo quello di magia e impararono a conoscere i vari filtri ‘miracolosi’. Per esempio, come fare innamorare le ragazze, ma subito abbandonarono la loro ricerca, in quanto troppo complicata e i componenti dei filtri assai difficili da reperire. Solo un libro li colpì a prima lettura. S’intitolava “Le confidenze di Marisa e Lola”. Lo lessero a più riprese sino alla noia (per modo di dire). Di esso assaporavano sesso a buon mercato, scoprendo ad uno ad uno tutti i segreti dell’amore fisico. La piacevole lettura proseguì perparecchi mesi. Dopo passarono il testo anche ai loro compagni Ad uno di essi, Nanny, capitò di essere sorpreso da un genitore che era assai religioso. Il libro fu immediatamente strappato e bruciato e il suo incauto lettore, seduta stante, malmenato a più non posso. Per nascondere i lividi, disertò la scuola per due settimane. Il papà di Guido, dal canto suo, era molto previdente e, accorgendosi che ormai i ragazzi erano cresciuti abbastanza per provare le dolcezze delle prime vampate d’amore, pensò bene di rimediare loro un giradischi. Lo fece da perfetto conoscitore, mettendo assieme pezzi vari in disuso, rilevati da radio, vecchi grammofoni e altoparlanti. Fu un successo. Il congegno funzionò a primo acchito. Ci misero su per primi i dischi da ballo (tango, polca, mazurka, valzer e fox trot) a 75 giri e successivamente quelli a 45, che trasmettevano ballabili più moderni, come slow, calipso, cha cha cha, e più in là ancora il rock americano, ecc. Le ragazze, quasi tutte giovanissime, specie le forestiere (Ottavio ne ricorda una che era bellissima e sexy) venivano volentieri al loro ‘pensatoio’ (così chiamavano la stanza preferita, ossia luogo di studio-pensiero e da ‘ballo’) e col pretesto di imparare il ballo, si stringevano e scambiavano qualche bacio furtivo. Tra l’altro, c’era una romana, venuta in vacanza con i suoi che erano originari del posto. Magra, alta e soprattutto disinvolta mandò subito in visibilio Ottavio, che si arrampicò su per baciarla. Ma non ci riuscì. Si chiamava Adele. Il giradischi di Guido restò ‘sommo’ nel servizio anche quando andò in voga quello mobile a valigetta. Tanto, da essere utilizzato più tardi anche nei comizi politici. Si continuò così anche negli anni a venire. Con l’amico Guido, sperimentò una singolare ‘marinata a scuola’ che restò stampata nella sua memoria. L’esperienza si concretizzò durante le ginnasiali. Non furono tanto le difficoltà scolastiche ad ispirarli, quanto l’amor di femmina. A quel tempo erano poche le donne che frequentavano le Superiori, specie se povere. Quindi, il ripiego per tante belle ragazze era il lavoro di sarta o ricamatrice e quello stagionale nelle campagne. Saputo che alcune loro ‘appetite conoscenze’ si trovavano al seguito dei loro genitori a raccogliere olive ai piedi della montagna, decisero una mattina di andarle a trovare sul posto, marinando la scuola. E così fu. Si diressero verso porta San Severo e si avviarono a piedi, decisi a percorrere la SS. 272, meglio nota come Via Sacra. Dopo qualche chilometro li prese in carico un Leoncino (piccolo camion), facendoli scendere nelle vicinanze dello Scalo ferroviario di Jana. Dopo di che abbordarono la pedegarganica, sospinti dalla bora e dall’ acqua ‘ventata’. Dopo qualche chilometro, non ce la facevano più a proseguire (ossia a raggiungere il podere dei nonni del suo amico, a Mezzanagrande). Così si fermarono alla prima masseria, immersa in un frutteto, per riposarsi un poco. Qui li accolsero con calore i loro compaesani, mentre al camino stava scoppiettando il fuoco per il caglio. La padrona di casa allungò dentro il mestolo e servì loro una scodella di legno, ben piena del fumante alimento. Lo bevettero di colpo e si sentirono all’istante in forza. Dopo di che proseguirono il cammino sino al podere. Da qui, dopo aver pranzato, si diressero alla montagna, dove si stavano raccogliendo le olive. C’era una grande masseria. Qui si sistemarono ed attesero il rientro delle ‘lavoratrici’. Ovviamente le giovanissime. Li accolsero tutte con calore, come se non vedessero maschi chissà da quanto tempo, con abbracci e sbaciucchiamenti vari. “Restate qui, stasera si balla!” – dissero in coro. E così fu. Dopo aver mangiato a sbafo si diedero alle danze sino a quando presi dal sonno, cascarono letteralmente sui sacconi. Bis la sera successiva. Nessuno di loro si azzardava a parlare di scuola, tanto meno di genitori. Erano felici, come se vivessero in un altro mondo. Al rientro della terza sera tutto cambiò. Grandi e piccoli, nessuno della comitiva li degnò di uno sguardo o di una parola. Ai loro perché, solo silenzi e musi lunghi. Come se non li avessero mai conosciuti. Rimasero impietriti, per alcuni minuti. Quindi, seduta stante, presero di corsa la via del ritorno, abbordando la ripida salita che portava in paese, evitando però la petrosa mulattiera che a zig zag segnava il versante della collina. Lassù solo case bianche. Pareva che dovessero rotolare giù da un momento all’altro. Ottavio andava avanti, l’amico lo seguiva a distanza. Per cui di tanto in tanto Ottavio era costretto a girarsi dietro, per assicurarsi che ci fosse. Ad un tratto non lo vide più. Chiamò a voce alta: “Guido…Guido, dove ti sei ficcato!?”. E lui, con un sospiro lamentoso rispondeva: “Sto qui, sto qui…Non mi vedi?. L’interpellante si precipitò subito in direzione della voce e ad una decina di metri più giù lo trovò disteso sul suo cappotto steso per terra, tutto deciso a riposarsi e a dormire a lungo. Lo rimproverò. “Dobbiamo raggiungere il paese quanto prima, per tranquillizzare i nostri genitori che di certo sono molto preoccupati per la nostra lunga assenza. E poi la scuola? – aggiunse con stizza – di certo ci boccerà?”. Guido si rimise il cappotto di stoffa assai doppia e pesante (era un rifatto del pastrano paterno, tant’è che egli stesso l’aveva soprannominato il quintale) e riprese il cammino, seguendo, sempre a distanza, le orme del suo apri – strada. La mente di Ottavio, intanto, rimuginava sul perché le ragazze li avessero evitato poco prima. Forse non erano piaciuti a loro? Chissà!. Solo a fine campagna, seppero il vero perché. Zurro, il capo manipolo della variopinta comitiva delle raccoglitrici, infatti, un po’ per invidia – gelosia, un po’ a ragione, aveva tenuto in pugno le stesse per tutto il giorno, irridendo sulla loro inesperienza ed ingenuità. Insomma era il tipo che alle donne piaceva e si faceva sempre rispettare, per via delle sue doti di incallito conquistatore. Così i due improvvisati viandanti arrivarono a Capolumonte. Era l’una di notte. Se ne accorsero dai rintocchi scanditi dal grande orologio pubblico affisso sul fronte del vecchio Municipio. Alle prime case si separarono. L’uno tornò in piazza, l’altro alle mura. Qui i genitori (dell’amico seppe dopo) accolsero Ottavio con sotteso sollievo. Il giorno successivo furono accompagnati dagli stessi a scuola, tra rimbrotti e qualche parola di troppo, accontentandosi del loro” Non lo faremo più”
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.