Da poco è in vetrina il libro “Foggia durante la Grande Guerra” di Stefano De Vito. Dato il periodo estivo appena trascorso, lo stesso ne vedrà la presentazione ufficiale solo Venerdì 20 Settembre, alle ore 17,30 presso la Sala Mazza del Museo Civico di Foggia, riservata al pubblico solo a copertura dei posti disponibili.
Ecco di seguito il programma.
Prenderanno la parola per i saluti istituzionali il sindaco della città, Maria Ida Episcopo, seguita dall’assessore al ramo, Alice Amatore. Dopo di che continueranno ad illuminare l’argomento con loro specifiche relazioni Masssimo Mastroiorio, direttore dell’Archivio di Stato e Carmine De Leo, presidente dell’Associazione degli “Amici del Museo Civico”,
Nel libro si parla dela città martoriata dai bombardamenti effettuati a ripetizioni dalle squadriglie incaricate anglo – statunitensi col pretesto che in città fossero accampate ancora truppe residuali tedesche, andate via da poco dopo l’armistizio dell’8 settembre di Badoglio, presidente in carica del Governo, scappato assieme al re, Vittorio Emanuele III, rifugiatisi dopo proprio in Puglia.
I bombardamenti di Foggia, che ha ridotto larga parte della città in cenere, specie del centro storico, comprendente la stessa Via Arpi e gli attivi dintorni che vanno da piazza Duomo al Piano delle Fosse, continua ancora a fare discutere sul numero dei morti. C’è chi si ferma alle duemila unità, chi va oltre. Va da sé che sino agli anni ’50 le rovine furono ancora visibili e paurose nelle zone colpite.
Chi scrive, ancora ragazzo, le vide e ne restò del tutto inorridito. Accadde a fine estate del 1949. Tanto in occasione della sua prima visita alla città. A portarlo, a bordo del cosiddetto “trainozzo” leggero, fu lo zio, proprietario della masseria in Contrada Fornovecchio, dove l’interessato si trovava a trascorrere le sue vacanze scolastiche estive.
Entrambi si intrattenerono per più di mezza giornata. La prima cosa che fecero fu la fermata e smontaggio del carro al cosiddetto piano delle fosse proprio là dove ora sorge la sede del sindacato CGIL. Quindi per prima cosa andarono a sistemare il cavallo alla stalla vicina, allora gestita pare da attivi montanari.
Ci intrattenemmo a lungo solo in piazza Teatro ancora cosparsa per intero da calcinacci e dalle sue case cadute lungo il tratto che porta a Via Arpi. Qui, il mio parente, in un locale vicino, aveva acquistato la rete metallica e la lana per il materasso, indispensabile per il suo prossimo matrimonio con mia zia. Quindi, pranzato all’osteria di Via della Repubblica, ora dei cinesi, la solita pasta e ceci, riipresi i nostri mezzi e caricata la roba acquistata facemmo ritorno a Foggia e data la discreta velocità del cavallo ormai riposato arrivammo a destinazione in meno di un’ora. Sui ruderi e le case dirupate di tanto in tanto chiedevo spiegazioni a mio zio, ma egli mi ammoniva puntualmente, bloccando il mio dire: “guarda e stai zitto! A quel tempo la polemica sulla vicenda era alle stelle.
Mi colpiì assai la vista dei palazzi rovinati nella zona attorno al mercato, precisamente in Via Manzoni, rimasti senza intervento alcuno fino alla fine degli anni ’60. Ricordo che in un sotterraneo di esso era funzionante persino una discoteca – sala da ballo, da me frequentata in gioventù.
Essendo il cielo di Rignano uno spazio di rotta aerea specie per chi si alza o atterra all’aeroporto militare di Amendola, le squadriglie, prima quelle tedesche e poi quelle anglo-americane si fecero vedere quasi ogni giorno. Al loro rumoroso passaggio, subito la gente si tappava in casa. Prima ancora addirittura abbandonava il paese e si rifugiava nelle camoagne vicine, specie nei boschi di Lucito e Iancuglia.
Ecco di seguito il mio preciso ricordo rimasto finora intatto nella mia memoria. Avevo, appena due anni finiti, ed ero in braccio a mia madre, assieme a tanta gente accalcata sul poggio a vista panoramica detto “Le mura”. In cielo c’era un aereo che stava ansimando e un paracadutista che scendeva col il suo paracaduto spiegato pian piano a terra. Poi l’aereo sparì caduto non si sa dove, mentre il pilota fu salvo e si consegnò alle autorità militari americane da poco in paese.
C’è di più, il paracadute fatto di tela di cotone fu raccolto come un trofeo da un padre di famiglia in servizio presso un allevamento padronale del luogo, che lo utilizzò mesi dopo per realizzare le vesti a quattro sue figlie di età varia, che girando per il paese con simile vestimento si autodefinirono delle vere americane, dimenticando su due piedi il famoso proverbio: “Non è l’abito che fa il monaco!”
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