Il Minorco, secondo la tradizione del paese, era un piccolo Orco, dalle sembianze più umane che animalesche come lo erano tutti gli altri protagonisti del Folklore e della mitologia classica sia italiana sia a livello mondiale. Il termine “mini” di derivazione latina, nel locale dialetto sta per piccolo. Non a caso il bambino è chiamato “mininn’” (piccolino).
L’orco del folclore e delle fiabe deriva certamente dall’Orco della mitologia romana. Impersona il re sovrano degli Inferi e divoratore di uomini insieme al suo mostruoso cane Cerbero. L’uso del termine “Orco“, per designare un mostro divoratore di uomini, è documentato in tutta la letteratura italiana, in autori di primo piano sin dagli albori della lingua, ossia dalla fine del duecento.
Per lo più, come nel nostro racconto, esso viene indicato e usato come uno spauracchio per i bambini e talvolta anche per i grandi. Ciò accade specialmente in realtà vergini, come nel Gargano, dove la gente ha un’anima semplice e popolana, pronta al credo delle favole. Il protagonista dei racconti assume anche altre denominazioni, come la “pajure”, “lu scazzamurridde’’, ecc.
Secondo gli esperti pare che la denominazione sia partita proprio dall’Italia e poi diffusasi in tutta Europa, specie nel Nord, dove il mondo della fiaba regna sovrano. Vi sono poi ‘orchi’ cosiddetti derivati, ossia che assumono altri nomi, a secondo dei luoghi e dell’immaginazione degli autori. Esempi tipici, sono “Mangiafuoco” di Pinocchio, Barbablu, le marionette, l’Orco di Pollicino, l’Orco del Gatto con gli Stivali, ecc. Sono esse raffigurazioni benevoli che più che spaventare fanno ridere i bambini. In tempi più recenti troviamo gli orchi del cinema, spesso feroci, e quelli dei fumetti. In taluni casi, gli stessi appaiono goffi ed ancora eroi, quali guardiani di principesse, ecc.
Nei tempi andati quasi tutte le abitazioni a piano del centro storico del paese erano privi di pavimento adeguato, ricoperto da mattoni, lastre di ceramiche o di pietra, e quant’altro. Spesso il suo utilizzo permaneva allo stato grezzo, costituito da roccia e da terra. Pertanto, accudirlo costava poco in termini di fatica e di impegno. Bastava una semplice scopa, fatta di vimini e affastellata alla meglio, per liberare il pavimento da qualsivoglia residuo proprio e improprio. Talvolta per non alzare la polvere, specie se il fondo era costituito da terreno morbido, si buttava un po’ d’acqua. In altri casi il continuo lavorio della scopa contribuiva a formare una sorta di terra battuta liscia e bella da vedere.
Tale era il pavimento e il monovano dove abitava la protagonista di questo racconto. Si chiamava Mariannina. Aveva tredici anni appena compiuti, ma ne dimostrava alquanto di più. Viveva come figlia unica assieme ai genitori, Tommaso e Scia (zia) Frusina, entrambi “cozzi” ossia contadini della montagna. Essi non c’erano mai, ma lavoravano sodo dalla mattina alla sera un campicello di poche are ubicato alla contrada Lucito, a quattro chilometri dal paese.
Qui si zappava e coltivava un po’ di tutto, dal grano alle patate e ai legumi. In zona riparata c’era anche un pezzetto di terreno, spietrato a dovere, destinato ad orto che nei momenti di siccità si innaffiava con l’acqua del pilone o con quella del barilotto riempito a piscina nova, una delle poche grandi cisterne che dissetavano la popolazione.
Mariannina, quella mattina si era alzata ben presto, pochi minuti prima della partenza dei genitori. Dopo aver bevuto un poco di brodo caldo di fior di malva e inzuppato in esso una pezzo di pane duro (era la colazione dei poveri, al posto del latte) si mise subito al lavoro. In primis riassettò ben bene il letto dei genitori, costituito dal saccone pieno di foglie di gran turco e una coperta rattoppata alla buona ed imbottita di cotone. Poi passò al suo lettino, situato ai piedi di quello grande, formato da un sacco pieno di paglione e un lenzuolo di fustagno colorato.
Quindi, lavato alla meglio il piatto grande di creta, l’unico per il pasto in comune, e l’annessa brocca di latta, si diede anima e corpo a pulire per terra, non senza prima aver raccolto a mano i residui grossolani di verdure e di pasta della sera prima. Raccolse il tutto a poco a poco con la “paletta” di stagno duro e lo versò nella “pelégne”. Oggetto, quest’ultimo, simile al cernitore, ma senza buchi, presente in tutte le abitazioni. Normalmente esso serviva per trasferire da un luogo all’altro qualsiasi cosa.
Terminata l’incombenza, si caricò sulla testa l’improvvisato cestello e si diresse verso il vicino immondezzaio pubblico, struttura solida impiantata sulla sommità del luogo detto “sop’li Mur’” ossia le mura, in seguito abbattute, in quanto ritenute non necessarie, per via del sottostante strapiombo.
Qui, mentre la ragazza stava per scaricare il suo carico, all’improvviso le scappò di mano l’involucro con tutto il suo contenuto, che cominciò a rotolare giù, accompagnato dalle sue grida disperate: “Mamma mia, la pelègne, mamma mia la pelègne!”. Da sotto, avvertiva quasi a risposta e a più riprese: “Cale cchiù sotte che la truve”. Era la voce di Minurco, ossia dell’Orco cattivo che si nascondeva tra i meandri della sottostante Frustèdde” (Forestella).
“Aveva – si diceva – una bocca grande, quando una pala da forno” e ingoiava tutto quello che gli passava sotto il naso, in particolare carne umana”. Suggestionato dalla voce e sospinto nel contempo dalla paura di essere aspramente rimproverata dai suoi al rientro, la ragazza scendeva lungo la discesa con ritmo sempre più sostenuto. Di tanto in tanto si fermava per riprendere fiato o allacciarsi gli zoccoli e nel contempo per ripetere con voce ormai rauca: “Mamma mia la pelègne, mamma mia la pelègne”.
E ciò fino a quando, arrivata sino in fondo la voce era diventata limpida e chiara e la guidò sino all’ingresso della grotta semicoperta da un folto ed intrigato rampicante. A questo punto si fermò e con ritrovato coraggio attese che l’animale si facesse avanti e mostrasse il suo vero volto di mostro feroce ed inguardabile. Avvertì i suoi passi e poi all’improvviso mostrò il suo viso. Non era l’animale che si aspettava, ma gli fu di fronte un giovane di media statura con il viso roseo, due occhi pungenti e canzonatori e un sorriso stampato sulla bocca.
La donna ne restò scioccata e non profferì parola. L’altro continuò: “ su vieni dentro, ora ti do subito la pelègne. É sana, non si è fatta niente durante la caduta”. L’altra lo seguì senza profferire parola e in un baleno si ritrovò in un salone ben messo e pieno di luci, con un letto ornato di drappi dorati, i mobili scintillanti e le poltrone con fondo rosso che ti invitavano a sederti. “Accomodati – continuò lui – adesso ti servo un buona colazione!” Battè le mani e in un attimo un aiutante cameriere posò sul tavolo vicino una vivandiera fornita di ogni ben di Dio, ossia con una tazza di latte e caffè fumante e biscotti a iosa.
Lei sedette e si servì a dovere da sola, sospinta com’era dalla fame e dal buono odore e sapore del pasto. L’altro dal canto suo la guardava con la coda dell’occhio, divertito e nel contempo affascinato dalla sua acerba bellezza. Vissero felici e contenti per tutta la settimana. Della pelègne non si parlò più se non di pranzi succulenti e di dormite piacevoli, di abbracci sempre più stretti, di carezze dolci ed invadenti e quant’altro.
Si erano ormai innamorati. Lui confessò tutto il suo passato che non era di orco, ma di persona normale. Si chiamava Felice, e felice lo era per davvero fino a quando non perse la sua giovane moglie Caterina, tre anni prima. Un evento doloroso che gli cambiò da subito la vita. Abbandonò il lussuoso palazzo dove abitava e si sistemò in fondo al canale, in una grotta spaziosa e profonda. Qui, di tanto in tanto, quando il ricordo della scomparsa lo prendeva, lo scuoteva da cima a fondo e il pianto si trasformava in un grido lugubre ed inumano. Dall’episodio lo scambio con la voce e la persona dell’orco che diventò da subito di dominio pubblico.
La mattina del settimo giorno, a conclusione di un brutto sogno, Mariannina si svegliò e ricordò tutto, la caduta della plègn’ e la disperazione dei suoi genitori che la cercavano in ogni dove. Pertanto, chiese al giovane di accompagnarla fino al paese. L’altro rispose di sì e in un baleno arrivarono a casa di lei. Dopo gli abbracci e baci, Felice, confessò il suo passato e tranquillizzò i due anziani, giurando seduta stante : “Amo Mariannina e sono pronto a sposarla subito !“.
E dopo dieci giorni, la promessa si concretizzò e i due giovani andarono a vivere nel palazzo, dove vissero felici e contenti, contornati da una nidiata di figli. Da allora, il racconto del Minorco, non si esaurì, ma continuò nel tempo, trasformato in fiaba a lieto fine, non incuteva più paura ai piccoli, ma li faceva sognare e godere il tempo della fantasia.
N.B. La “pelègne” era un oggetto simile , come forma e grandezza, alla “setarola”, ma diverso il suo uso nella vita quotidiana. La prima, avendo il fondo compatto in lamiera, serviva come comodo per fare essiccare le spezie tipo, seme di finocchio, menta, basilico, lauro, ecc. per uso in tutte le stagioni (si veda foto di Roberto Vincitorio). La seconda era esclusivamente utilizzata differenza per secernere la farina, dividerla dalla crusca, quando la stessa doveva essere utilizzata dalle massaie per impastare il pane o realizzare la pasta di casa. Entrambe erano costituite da una fascia larga dai dieci ai venti centimetri , con uno spessore di cinque millimetri le cui estremità erano unite a formare un cerchio del diametro di quaranta centimetri circa. Sul cerchio era stesa la lamiera e, sopra di esso, lungo la circonferenza, un altro cerchio molto più stretto e aderente al primo, fissava la lamiera ben stesa e capace di contenere qualsiasi tipo di materiale trasportabile (vedi foto). Infine, non dissimile dalle due c’era un terzo oggetto chiamato “Farnare”, che diversamente dalla “pelègne” aveva sul fondo dei fori grandi, Serviva per spulciare grano, fave, ceci, ecc.
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.