Anche San Marco in Lamis piange la morte di Rodolfo Di Biasio, scrittore – poeta e critico raffinato di Formia, da poco scomparso.
In paese era stato nel marzo del 2019, partecipando al convegno “Gente italiana nel mondo”, promosso dal letterato Sergio D’Amaro, a cui era legato da stretta ed antica amicizia.Il nome suo nome era assai noto nell’intero Stivale. Lo era, oltre che per la sua pregiata produzione, soprattutto per via della sua lunghissima carriera ed esperienza alle spalle. Ora a tesserne le lodi è lo stesso D’Amaro. Lo fa con lo scritto che segue, dove ripete il suo giudizio critico già espresso in passato. “Rodolfo Di Biasio, una lunga fedeltà ai valori dell’uomo / di Sergio D’Amaro
Ho incontrato per la prima volta Rodolfo Di Biasio al Convegno sulla Poesia della Metamorfosi che si tenne a Fano nel maggio 1982. Fu un incontro promosso da Fabio Doplicher, scrittore meritevole di ancora molta attenzione ma oggi alquanto dimenticato. Si trattava di una tematica che stava al centro di un dibattito sviluppato anche sulla rivista Stilb, curata dall’autore citato per un paio di anni, che analizzava la nuova frontiera della poesia tornata al privato dopo le dilaganti ubriacature politiche degli anni di piombo. Fu l’occasione per far incontrare molti dei migliori scrittori e critici di quel tempo (da Amelia Rosselli a Francesco Leonetti, da Remo Pagnanelli a Umberto Piersanti) in un momento nel quale l’Italia stava virando verso una nuova epoca fatta di neoliberismo reaganiano e di TV commerciali imposte da un rampante Berlusconi.
Si presentava una svolta anche nelle modalità di scrittura e nella necessità di scegliere il distacco o la coerenza con certi moduli espressivi. Penso che per Di Biasio non fu difficile essere in linea con quelle che erano state le sue scelte, che affondavano in ciò che aveva costituito la sua impronta iniziale fin dagli anni ’60: un lirismo sorvegliato e disposto in metafore assolutamente necessarie, una lingua ispirata a significati condivisi, una memoria sempre presente a tracciare le coordinate esistenziali. Quanto più ci allontaniamo dalle origini e ci inoltriamo nel crogiolo delle contraddizioni della realtà, tanto più serve invocare e riaffermare la validità di ciò che veramente siamo. La fedeltà alle origini, alle radici (come è stato sottolineato da alcuni suoi attenti lettori) ha caratterizzato il percorso di Di Biasio con qualunque mezzo si esprimesse, in versi o in prosa, facendone quasi un alfiere della sua generazione, che è stata quella che nell’infanzia o nella fanciullezza ha subìto l’impatto con la Seconda guerra mondiale. Penso che questo evento sconvolgente possa costituire per la psicologia di un autore uno choc emotivo e memoriale talmente importante da portarlo a considerare le mille eventualità della vita come momenti di rinascita e di riaffermazione del diritto a nutrire la speranza. Qualificare il passato significa anche riconoscere la storia particolare del luogo in cui si è nati.
Di Biasio non ha potuto fare a meno di riflettere sul destino della provincia italiana e sulla condizione dei paesi meridionali. Si spiega, in tal modo, il suo lungo attraversamento dell’epopea emigratoria, con la sua dirompente portata sociale ed economica e con la sua straordinaria facoltà di produrre storie che si svolgono collaterali o parallele alla grande storia. Per chi era già disponibile a riflettere sul destino umano, l’emigrazione ha costituito un eccezionale vivaio narrativo, dotato di sentimenti, ricordi e simboli che avrebbero potuto valere per qualunque generazione.
Di Biasio l’ha fatto con Il pacco dall’America e soprattutto con I quattro camminanti, libro fortunato anche nell’edizione americana del 1998 curata da Bordighera Incorporated. È qui che l’autore ha meglio saputo collegare le radici al mito, il mondo ancestrale al sogno di un mondo incantato, il passato ad un prefigurato futuro. È riuscito, anche attraverso lo strumento diretto delle lettere, a rappresentare lo scenario mentale di una famiglia proletaria impegnata nello sforzo quasi disumano di un’emancipazione costata sacrifici materiali e terremoti psicologici. Nello specchio del racconto si riflette un tormentato ‘900 fatto di enormi sprechi d’umanità, sballottata tra guerre, dittature ed emigrazioni.
Se penso poi al Poemetto dei naufragi e delle rottamazioni, incluso nei Poemetti elementari pubblicati da Il Labirinto di Roma nel 2008, non posso non collegarlo ad altri tematici ‘’naufragi’’ e a quell’opera fondamentale del ‘900 poetico italiano che è Allegria di naufragi di Ungaretti. Dal dolore, dalla disperazione, dalle conseguenze di un dramma può nascere l’allegria? In cosa consiste la speciale illuminazione che deriva dal fondo di una coscienza che ha analizzato il male del mondo? Qui si rende sempre più palese il lavorìo di una sensibilità religiosa, di una dimensione che Di Biasio ha dichiarato ben presente nel suo intimo in un’intervista rilasciata a chi scrive e apparsa sulla rivista ‘’Frontiere’’ (a. XVIII, n. 34, 2017). Egli afferma a un certo punto: Che in me ci siano risonanze religiose è un fatto. Questo aspetto lo ha ben analizzato nel 2008 Stelvio Di Spigno negli ‘’Annali’’ dell’Università degli Studi di Napoli dove ha pubblicato un saggio sulla mia poesia intitolato La voce del sacro nella poesia di Rodolfo Di Biasio.
Il termine risonanze mi piace, perché di vere e proprie risonanze si tratta ed esse partono dall’educazione religiosa che mi è stata data negli anni dell’adolescenza. Poi contro o verso di essa, anche quando mi sembra di averla cancellata, mi accorgo ancora che mi è dentro e mi appartiene. Non è quantificabile. Dentro di me sicuramente ha agito in profondità. Quando mi pongo di fronte a un avvenimento o una scelta non saprei dire come l’ieri e l’oggi si intricano. Ne è prova Patmos. È il libro che è nato dai miei viaggi a Patmos, l’isola di San Giovanni e dell’Apocalisse. Non vi è alcun riferimento storico nel mio libro né tantomeno una cadenza sapienziale, eppure come è stato scritto Patmos si nutre anche di una cultura biblico-cristiana. Ne è prova anche I quattro camminanti, il romanzo che dell’emigrazione intende cogliere il dolore e la speranza come riconoscibili segni di un viaggio verso un oltre, un attraversamento che si può leggere anche come una sorta di rassegnazione di matrice religiosa.
Il lungo cammino di Di Biasio in oltre cinquant’anni di scrittura attesta, alla fine, la sua fedeltà ai valori umani fondamentali di fronte a cambiamenti di civiltà così chiaramente traumatizzanti. È la testimonianza che deve attuare la letteratura, scrivendo le difficoltà e le vittorie di una sfida che è soprattutto etica prima che estetica. Oggi alcuni osservatori affermano che un’altra grande crisi internazionale è alle spalle, altri ci dicono (come Aldo Cazzullo nel suo bel libro pubblicato da Mondadori sull’Italia della Ricostruzione Giuro che non avrò più fame) che si può risalire la china avendo come viatico la fiducia nel futuro. Idealmente, voglio pensare che anche Di Biasio abbia privilegiato questa indicazione lasciando un messaggio ancora tenacemente umanistico. Sergio D’Amaro”
Giornalista, scrittore e storico. Ha al suo attivo una cinquantina di pubblicazioni su tradizione, archeologia e storia locale.